I valori del cristianesimo sopravviveranno in Europa

Sopravviverà l’Europa all’offuscarsi di una presenza significativa del cristianesimo nella sua concezione del mondo? Non parlo qui della presenza della Chiesa, quella ci è garantita fino alla fine dei tempi. Penso a quell’insieme di “valori” che il cristianesimo ha forgiato in Europa anche al prezzo di sofferenze, errori, violenze.

Una visione, insomma, dell’uomo e della società, originali, che non trovano riscontro in altre culture e che nascono dalla consapevolezza della persona come immagine del Dio creatore che si fa uomo e cambia la storia dandole un suo fine.

La domanda iniziale non è banale e non nasce da preoccupazioni confessionali o “cattoliche”: anzi forse è proprio tra i politici cattolici che il senso e il significato di Europa è diventato sfumato e retorico.

Nel recente pamphlet di Leszek Kolakowski (Gesù, saggio apologetico e critico), il filosofo – già marxista e poi portatore di un pensiero laico molto attento al fatto religioso – parlando della fede cristiana che vede gradualmente abbandonare una presenza viva nella società, scrive “anche in una forma attenuata, quasi incosciente, residuale, essa [la fede]può servire la vita profana sostenendo la convinzione che la distinzione tra bene e male è reale, che essa proviene da un ordine che ci supera e che non dipende dal capriccio di un governo, di un re, di una maggioranza, di un partito politico, o anche di ciascuno di noi individualmente. Se poi supponiamo che essa svanisca del tutto, anche come credenza vaga nella legge naturale, abbiamo tutte le ragioni per prevedere il crollo della civiltà europea”.

Riflettendo sull’Europa non possiamo non tornare alla svolta – culturale prima ancora che politica – alla quale ritengo si possa attribuire l’attuale perdita di significato del grande sogno europeo come immaginato, e inizialmente costruito, dai grandi uomini di stato del dopoguerra.

Mi riferisco al lavoro per una costituzione europea naufragato per le divisioni tra i paesi membri e al rifiuto di introdurre nel testo un esplicito riferimento alle radici giudaico-cristiane dell’Europa. Si trattava di una richiesta sostenuta fortemente anche dal pontefice allora regnante, Giovanni Paolo II, che – forte della sua identità slava – aveva già da tempo introdotto nel dibattito la visione di un’unità spirituale dell’Europa costituita dai due polmoni , orientale e occidentale.

Ma la politica europea, fortemente influenzata dal laicismo massonico dell’ex presidente francese Giscard d’Estaing, che presiedeva la Convenzione che doveva scrivere la costituzione e che rifiutava di ricevere la lettera indirizzatagli dal pontefice, sceglie un’altra strada, in realtà già imboccata con precedenti decisioni.

La svolta europea, infatti, va fatta risalire all’incontro di Maastricht e al relativo Trattato. E’ in quest’occasione che il nome cambia, da Comunità a Unione Europea, si programma l’introduzione della moneta unica e si introducono diverse e importanti modifiche e aggiornamenti ai trattati.

C’è però una grave dimenticanza in questo Trattato. Ed è la sottovalutazione dell’apporto che il polmone orientale avrebbe potuto portare alla nuova UE. Siamo, infatti, nel 1992 e la dissoluzione della cortina di ferro che racchiudeva nel comunismo marxista i popoli dell’Est europeo e della Russia li ricongiungeva con i fratelli dai quali erano stati separati per mezzo secolo.

La miopia, che oggi paghiamo duramente, fu quella di immaginare che la riunificazione dell’Europa e un nuovo rapporto con la Russia potessero avvenire solo sulla base degli interessi economici. Così s’investirono ingenti risorse europee a favore della riunificazione della Germania, e nessuno sforzo invece per cogliere e assumere nella cultura di questa nuova Europa, l’esperienza, le riflessioni e i sacrifici di un mondo che era stato penalizzato ma che, proprio nel dissenso e nella sofferenza, aveva saputo dar luogo a una cultura alternativa che avrebbe arricchito un Occidente pieno di sé e dell’illusione che la storia avesse ormai preso una direzione univoca verso l’occidentalizzazione capitalistica.

Osservazioni analoghe a quella riportata del polacco Kolakowski, sono rintracciabili negli scritti del dissenso dei paesi dell’Est e anche formalizzati nelle riflessioni del movimento cecoslovacco di Charta 77, cui aderiva anche Vaclav Havel che sarebbe poi diventato presidente del suo paese.

“Un cambiamento in meglio delle strutture che sia reale, profondo e stabile oggi non può partire– anche se è successo- dall’affermarsi dell’una o dell’altra concezione politica basata su idee politiche tradizionali e alla fin fine solo esteriori, ma dovrà partire dall’uomo, dall’esistenza dell’uomo, dalla sostanziale ricostituzione della sua posizione nel mondo, del suo rapporto con se stesso, con gli altri, con l’universo.

Oggi più che mai, la nascita di un modello economico e politico migliore deve prendere le mosse da un più profondo cambiamento esistenziale e morale della società: non è qualcosa che basta concepire e lanciare come il modello di una nuova automobile; se non si tratta solo di una nuova variante del vecchio marasma, è qualcosa che si può configurare solo come espressione di una vita che cambia. Non è detto quindi che con l’introduzione di un sistema migliore sia garantita automaticamente una vita migliore, al contrario: solo con una vita migliore si può costruire anche un sistema migliore.”(Havel, Il potere dei senza potere)

“…ci si è definitivamente liberati dell’eredità morale dei secoli cristiani con le loro immense riserve di pietà e di sacrificio e i sistemi sociali hanno assunto connotati materialistici sempre più compiuti. In ultima analisi si può dire che l’Occidente abbia sì difeso con successo, e perfino con larghezza, i diritti dell’uomo ma che nell’uomo si sia intanto completamente spenta la coscienza della sua responsabilità davanti a Dio e alla società”. (Solzenicyn, Un mondo in frantumi, discorso di Harvard, 1978)

Solzenicyn e il dissenso sovietico opportunamente accolti nella loro verità avrebbero certamente aiutato la giovane UE a respirare a due polmoni e, in particolare, a comprendere meglio le ragioni dei popoli dell’area dell’Ortodossia e delle terre per secoli soggette al dominio dell’impero Turco.

Non è stato così. L’economicismo, accompagnato da un laicismo miope, ha privato l’UE di strumenti culturali adeguati per affrontare le drammatiche sfide che l’Europa (e il mondo intero, viste le tensioni per Taiwan e le innumerevoli guerre dimenticate in Africa e Asia) hanno davanti. La situazione della guerra portata dalla Russia in Ucraina e l’impotenza di ogni possibile mediazione, i rischi nuovamente risorti nei Balcani, stanno a dimostrarlo. L’illusione, ormai in via di affermazione anche tra personaggi autorevoli, che il ruolo dell’Europa nel contesto mondiale sia da affidare al potere della forza piuttosto che a quello della sua cultura millenaria potrebbe rivelarsi un grave azzardo.

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